我现在所在浙江的这个地方,地图上显示是一个“村”,然而这个村落的概念和西方对于村庄的定义相去甚远。汾南体字村是散布在一道道水体中间的农田和低矮的房屋。在中国的这片地区,水系纵横,一切皆因水而生。水是如此丰腴润泽,就仿佛鲜花和果实也是因为水才有了生命。水不仅滋养着大地,它本身也是耕种的良田。水面上升起的那一层薄雾更是将层次丰富的世界串联了起来。
此景当前,且无须任何理论知识,也能很自然的理解1500年来中国的画家们是如何建构了山水美学。他们并不刻意展示现实情境,勾勒眼中的自然,而是更多的专注于自然引发的思考,触动的情感,以至于色彩和图像是否写真写实变得无关紧要。风景就像是内心世界敞开的一扇门,是观察者心灵之路的起点。这条漫漫长路,透过艺术和那发人深省的光辉,带领人们进入思考和净心冥想的乐土。
汾南体字村是孟岩工作室所在的村庄。水间散落的房子中有一栋是他的工作室。我来这里是为了观摩他的二幅巨作《最后的晚餐》和《神曲》。朋友保证说绝对值得从上海专程过来看这些作品。他们跟我说这些是惊人的杰作,是中国当代艺术辉煌的成就。
然而我先就被孟岩的花园打动了。他的那些花很像我这辈子在其它地方见过的花,但又不完全一样,不是因为不同植物种类开出的花朵不同,而是因为广义上的生态,也就是由水、植物、我们人类和人类生活其中的自然界所组成的生态不同,因而呈现出了不尽相同的表象。花瓣边缘,花瓣里外斑斓的色彩仿佛就是为了让花看起来不会平淡无奇。那些花,朴素自然却又有着更深层的存在。雕塑就像是花,就算没有茎叶的衬托,作品依然屹立挺拔。
艺术家的创作-我告诉自己-既取材于他成长的文化和坚守的传统里面的故事,又扎根于为其创意提供灵感的景观和那些不断变化中的日常。尝试理解艺术家的作品前,总要先搞清楚艺术家身处哪个历史维度,有什么样的创作环境,他的心灵属于哪种宇宙空间。不搞清楚这些,对于像我这样的外人来说,对作品的理解将会停留在不能被饶恕的肤浅程度。
孟岩很喜欢他花园里的躺椅。那是一张手工制作的躺椅。也许是他自己的作品。躺椅由一条条灰色的木头条横向排列拼接而成,木头条历经雨水已经褪了颜色。躺椅从上到下分三个层级,就像中国古代风景画蕴含着三个层次一样:椅背,椅座,和那块牢牢嵌在躺椅下面,像是被横过来的扶手的搁脚板。这张躺椅很显然是为他量身定做的。它符合完美的人体工程学,不仅对他的身体而言。躺椅是他花园里国王的宝座。当发现我拿着相机对着躺椅拍照时,他跑过来,坐在上面,自得其乐的对着我微笑。他打手势告诉我,坐在躺椅上他很自在。坐在躺椅上他一切安好。他要告诉我的东西很深刻。但那是以他的英文,我的中文都没办法表达清楚的深刻,然而手势和共鸣的情感传递出了这种很深层次的东西。
要走进孟岩的艺术世界,他自己说必经之路就是去探秘揭晓那个存在于他选择进行创作的真实世界和由周围环境塑造的内心世界之间微妙的共鸣。这种艺术创作,也许可以说这种美学,里面有极少的写真视觉,但却有着厚重的,堪称中国绘画史顶梁柱的山水画内在的风韵。诚然这种韵味早已因时因事脱胎换骨。褪去的是与平衡,组合元素和形式相关的那些刻板原则怪异神秘的外在,保留在作品里的是最本真的风骨。
如此一来就很容易理解那些摆放在花园和工作室里的巨型人物和动物金属雕塑作品了。这些生活在孟岩真实世界里有生命的主体,在内心里被想象,被放大,有了形状而后成就了作品。
那些画在巨幅墙面上的灰色头像,生活在艺术家内心世界的故事里,是前来参加活动的客人。那些是由艺术家创作出来的特定世界里的人物。这些画面,经过艺术的创作,展现的是内心世界里面那些放大了的场景和心灵的地图。经过创作,灰变成了山。
供奉着莲花立身佛像的神龛前面摆放着两只巨大的由金属废旧角料做成的蝴蝶。如果有必要解释一下的话,这反映的是孟岩的美学与自然面前我心向善这一人的夙愿之间深刻的关系。倾听外在的世界,把外在的世界当成自己艺术的灵感源泉,这不只是一种心理活动和智慧表达,它的意义更为广泛,这里有同理心,有不离不弃,有爱,有怜悯。这是一条通往对极乐世界做出正确诠释的路。艺术,说到底,是获取更多智慧的工具。
解锁了灵魂拷问和重获新生这两项孟岩艺术创作的主线以后,再来到那两幅基于达芬奇和但丁基础之上创作出的巨幅作品前的时侯,我已经不感觉那么尴尬了,因为此刻我理解到,那些相同的作品是他修炼灵魂的场所。这不是游戏也不是模仿,而是一种尝试,他在试着刻画那个进入到他内心世界的庞然大物的形象。那个他认为在已然全球化的世界里有着光辉荣耀形象的庞然大物。
所有这一切里面都有快乐的印记。举手投足间,在这些源自内心世界的作品中间穿行时,孟岩都传递着巨大的快乐。这是在将创造力转化成作品的过程中产生的快乐,在这个过程中直觉的觉知多于哲学的领悟,这个过程成就了他重要的艺术风格。
今天这趟汾南体字村之旅真是不虚此行。
瑞士Museo delle Culture馆长 弗兰西斯科·保罗·坎皮内
Fénnántǐzì. 8 ottobre 2019
La località dello Zhejiang in cui mi trovo è indicata sulle carte geografiche come un «villaggio» , ma è quanto di più lontano, di più distante possa esservi dall’idea occidentale di un villaggio. Fénnántǐzì sono campi e case basse fra le acque che, in questa parte della Cina, intessono ogni cosa. Acque così spesse da essere quasi vegetative, da suggerire la sensazione che possano dare vita a fiori e frutti. Acque che non soltanto nutrono le terre ma che sembrano esse stesse terra coltivata. Acque dalle quali si alza una nebbia sottile che mette fisicamente in comunicazione i diversi livelli del mondo.
Osservando un simile paesaggio diventa chiaro, senza bisogno di alcun approfondimento teorico, come per mille e cinquecento anni i pittori cinesi abbiano coltivato l’estetica dello shān shuǐ, tralasciando di presentare la realtà sensibile, l’immagine restituita agli occhi dalla natura, e preferendo invece concentrarsi su ciò che la natura fa pensare, sui sentimenti che essa suscita, del tutto incuranti se i colori e le immagini dipinte somiglino o meno all’oggetto reale. Il paesaggio come una porta aperta verso il mondo interiore. Il punto di partenza di una strada per la mente dell’osservatore, di un cammino che, attraverso l’arte, e il valore meditativo che essa possiede, conduce al regno del pensiero e della speculazione pura.
Fénnántǐzì è il villaggio di Meng Yan. Una delle case fra le acque è il suo atelier. Sono qui per vedere la sua «Ultima cena» e la sua «Divina commedia». Mi assicurano che vale la pena di venire fin qui da Shanghai per vederle. Mi dicono che sono sorprendenti capolavori. Un risultato eccellente dell’arte cinese contemporanea.
Quello che mi sorprende è però, prima di tutto, il giardino di Meng Yan. I suoi fiori simili ai fiori che ho visto altrove nella mia vita, ma non proprio gli stessi, come fossero il frutto non soltanto di una variabilità botanica, ma anche l’espressione di una diversa biologia del corpo più grande che comprende le acque, le piante, noi e il nostro mondo naturale. Fiori dai petali screziati verso i bordi, all’interno o all’esterno, quasi volessero rifiutare l’idea di essere rappresentati come una superficie piatta. Fiori che, nella loro semplicità, inducono a una rappresentazione più profonda della loro essenza. Fiori come sculture, anche senza percepirne lo stelo e le foglie.
Il lavoro dell’artista - mi dico - si nutre della storia della propria cultura, di una tradizione che sente sua, al pari del paesaggio e delle incessanti trasformazioni del quotidiano in cui sceglie di immergere le fonti della propria creatività. Prima di cercare d’interpretarne l’opera, bisogna sempre collocare un artista nella sua dimensione storica, nell’ambiente in cui crea, nell’universo psichico che gli appartiene. Non farlo, specie quando si è estranei, come lo sono io, sarebbe un imperdonabile superficialità.
A Meng Yan piace molto la sedia a sdraio del suo giardino. È un prodotto artigianale. Sembra l’abbia scolpita lui. Si compone di listelli orizzontali di legno grigio, dilavati dalla pioggia. Anche la sdraio ha tre livelli, come la pittura tradizionale di paesaggio in Cina: lo schienale, la seduta, il poggiapiedi profondamente inserito alla base della struttura, come fosse una spalliera orizzontale. La sdraio è evidentemente a sua misura. Ha un’ergonomia perfetta, non soltanto per il suo corpo. È il trono del suo giardino. Quando si accorge che lo sto ritraendo con la fotocamera del mio cellulare, corre a sedersi sulla sdraio e a sorridermi avvolto nel suo ambiente. Mi fa segno con le mani che lì sta bene. Che lì va tutto bene. Vuol dirmi qualcosa di molto profondo. Qualcosa che il suo inglese e il mio cinese non permetterebbero mai di comunicarci, ma che l’umanità dei gesti e dei sentimenti è in grado di trasmettere a un livello molto profondo.
Per avvicinarsi all’arte di Meng Yan la strada maestra che egli stesso indica passa attraverso la rivelazione della sintonia sottile che vi è fra l’universo fisico in cui ha scelto di creare e l’universo interiore che si nutre di ciò che gli sta intorno. È un meccanismo, e probabilmente già un’estetica, che ha poco, pochissimo di visivo, mentre possiede molto di quell’atteggiamento introspettivo dello shān shuǐ che è l’asse portante della storia della pittura cinese. Naturalmente, un atteggiamento adattato alle condizioni e alle dinamiche del nostro tempo. Scarnificato dal cervellotico e mistico insieme di rigide regole riguardanti l’equilibrio, la composizione e la forma, ma intrinsecamente fatto proprio nel dispositivo essenziale della rappresentazione.
Il significato dei giganteschi animali e delle figure di metallo che popolano il suo giardino e l’officina del suo atelier diventa così perfettamente comprensibile. Sono i protagonisti vitali del mondo fisico di cui Meng Yan si è nutrito, restituiti nelle forme fuori scala del suo immaginario interiore.
I volti grigi dipinti su superfici grandi come muri sono gli ospiti di una vicenda umana ed esistenziale nutrita dal suo universo interiore. Sono i tipi umani di una realtà filtrata, rielaborata, fatta propria dall’artista e, finalmente, restituita in un suo specifico particolare. Immagini che, frutto di un tale lavorio, diventano gigantografie e mappe di un universo interiore. Polvere lavorata sino a divenire montagna.
L’altare al Buddha in piedi sul fiore di loto fronteggiato da due gigantesche farfalle di lastra di metallo traforato ricorda, se ce ne fosse bisogno, il profondo rapporto che l’estetica di Meng Yan possiede con la concezione per cui l’uomo è chiamato a sperimentare il desiderio del bene nei confronti di ogni manifestazione della natura. Sentire il mondo esteriore e fare di ciò la sorgente della propria arte non prevede soltanto un’azione psichica e intellettuale, ma è parte di un più ampio discorso che si fonda sull’esercizio della compassione, che non è mai distacco ma piuttosto presenza, amore, pietà. Strada per giungere alla corretta comprensione delle realtà ultime. Arte, dunque, come strumento di acquisizione progressiva della saggezza.
Dopo aver interpretato il procedimento di introiezione e rigenerazione che governa l’arte di Meng Yang, di fronte alle grandi opere che prendono spunto da Leonardo e Dante, sono meno in imbarazzo, perché capisco che quelle stesse opere sono la palestra del suo animo. Non un gioco o un’emulazione, ma il tentativo di dar corpo a qualcosa di grande entrato nel suo mondo interiore. Qualcosa che egli si sente di vestire di panni nobili in un orizzonte ormai globale.
Vi è gioia in tutto questo, un’immensa gioia che trasuda anche fisicamente dagli atteggiamenti di Meng Yan, dal suo muoversi attorno alle proiezioni materializzate del suo mondo interiore. È la gioia di una creatività intensamente metabolizzata in un processo che è probabilmente più intuitivo che filosofico. Un processo che comunque costituisce una cifra stilistica importante.
Valeva proprio la pena oggi venire sino a Fénnántǐzì.
Francesco Paolo Campione